Shunka Wakan - Il trionfo dell'uomo chiamato cavallo

Ma sarebbe più il caso di dire "il fallimento, l'abisso trash dell'uomo chiamato cavallo", ecco come affossare un classico del cinema

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    Trenta anni dopo gli avvenimenti del film precedente, Lord Morgan/Shunka Wakan è ancora a capo della sua tribù. Ma le terre dei Sioux sono invase dai cercatori d'oro e i fomentatori tramano nell'ombra.
    Già il primo sequel (La vendetta dell'uomo chiamato cavallo) arrivato dopo sei anni dall'originale (Un uomo chiamato cavallo) sembrava un film nato fuori tempo massimo, figuriamoci questo terzo capitolo arrivato dopo altri sette anni, nel 1983, periodo di vacche magrissime per il cinema western. Infatti dopo le due grosse produzioni precedenti stavolta va in scena una misera produzione di serie F, girata visibilmente alla meno peggio e al totale risparmio. A cominciare dalla presenza di un troppo costoso Richard Harris, che compare in tre scene contate, recita con aria spiritata un paio di scocciatissimi monologhi e poi si fa ammazzare. Considerata la fine un po' scarsa del personaggio (un cecchino gli spara alla spalle e buonanotte) il "trionfo" annunciato del titolo è francamente ridicolo.
    Il protagonista vero è il personaggio interpretato da Michael Beck, cioè Koda, figlio mezzosangue di Shunka Wakan. Già protagonista tre anni prima de "I guerrieri della notte", Beck non sarebbe neanche male e fisicamente è pure credibile come figlio di Richard Harris (meno come meticcio), peccato sia alle prese con un personaggio ridicolo, che all'inizio si presenta come biondo pistolero da spaghetti western e in men che non si dica si mette a capo della tribù del padre. Ad un certo punto si trasforma pure in una specie di raddrizzatorti solitario, con al suo fianco una specie di fotomodella col costume di carnevale da squaw. I due intrepidi se ne vanno in giro ad ammazzare fomentatori e a sloggiare i cercatori d'oro a suon di dinamite.
    Facile a questo punto intuire che il film non vorrebbe essere altro che un filmetto d'azione in puro stile anni 80 (raro vedere tante esplosioni in un western), ma la confezione è troppo modesta anche solo per essere passabilmente divertente. La violenza e le crudezze dei due capitoli precedenti sono quasi del tutto annullate dalla piattezza para-televisiva, la trama sembra quella del più ingenuo kraut western degli anni 60, con tanto di killer che agisce nell'ombra - la cui identità risulta ovvia fin da subito anche allo spettatore più distratto. Decisamente assurdo il lieto fine con gli indiani che scacciano gli invasori bianchi.
    A peggiorare ulteriormente l'aria trasandata dell'insieme ci sono gli elementi ripresi di peso dai film precedenti. Dal primo film vengono riprese le sequenze visionarie, che però rimontate in un contesto tanto mesto fanno l'effetto di cianfrusaglia onirica, mentre dal secondo è ripresa l'epica colonna sonora di Laurence Rosenthal, la cui sontuosità stride con un film tanto dimesso (tutto sommato più coerente con la materia filmica la patinata canzoncina pop “He's Comin' Back” cantata da Rita Coolidge sui titoli di testa). Si salva giusto qualche scena d'azione, girata per altro non dall'anonimo John Hough, ma dalla seconda unità diretta da Terry Leonard, ancora oggi uno dei più esperti stuntman di Hollywood; c'è lui dietro le scene d'azione di "Grindhouse - A prova di morte” di Tarantino e “Inception” di Nolan.
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